Un libro che non basta: “Basta così” di Wisława Szymborska

Nonostante il nome difficile,  la poesia di Wisława Szymborska, autrice polacca nata nel 1923 e morta nel 2012, premio Nobel per la letteratura nel 1996, è abbastanza conosciuta: tanto che, con mia grande sorpresa, l’ho trovata citata alcune volte  su facebook da persone che non si occupano di poesia; cosa che non mi è mai successa per esempio con un altro poeta premio nobel, Tomas Transtömer. Forse perché la  poesia della Szymborska non mette paura, contrariamente a quella di altri poeti contemporanei, più cupi, o più impegnati in giochi linguistici. Non mette paura anche se i suoi componimenti sono ben lontani dall’essere semplici o consolatori: l’ironia, il gusto per la sorpresa, per il finale che spiazza, nascondono una feroce critica sociale, ma anche uno stupore filosofico (ovvero di interrogazione inesausta) davanti al mondo. Scelgo qui due poesie eblematiche di queste due tendenze dall’ultima opera, Basta così, nella traduzione di Silvano De Fanti (Adelphi, 2012).

 

C’è chi

 

C’è chi meglio degli altri realizza la sua vita.

È tutto in ordine dentro e attorno a lui.

Per ogni cosa ha metodi e risposte.

 

È lesto a indovinare il chi il come il dove

e a quale scopo.

 

Appone il timbro a verità assolute,

getta i fatti superflui nel tritadocumenti,

e le persone ignote

dentro appositi schedari.

 

Pensa quel tanto che serve

non un attimo in più,

perché dietro quell’attimo sta in agguato il

dubbio.

 

E quando è licenziato dalla vita,

lascia la postazione

dalla porta prescritta.

 

A volte un po’ lo invidio

-per fortuna mi passa.

 

***

 

Lo specchio

 

Sì, mi ricordo quella parete

nella nostra città rasa al suolo.

Si ergeva fin quasi al sesto piano.

Al quarto c’era uno specchio,

uno specchio assurdo

perché intatto, saldamente fissato.

 

Non rifletteva più nessuna faccia,

nessuna mano a ravviare chiome,

nessuna porta dirimpetto,

nulla cui possa darsi il nome

«luogo».

 

Era come durante le vacanze –

vi si rispecchiava il cielo vivo,

nubi in corsa nell’aria impetuosa,

polvere di macerie lavata dalla pioggia

lucente, e uccelli in volo, le stelle, il sole all’alba.

 

E così, come ogni oggetto fatto bene,

funzionava in modo inappuntabile,

con professionale assenza di stupore.

Videopoesia, questa sconosciuta.

Poesia. Molti la scrivono, pochi la leggono, ancora meno la ascoltano. E quasi nessuno la guarda. L’abbinamento tra immagini e parola poetica  è difficile. Se c’è una storia, illustro la storia. Se ci sono dei personaggi, li faccio vedere, li faccio muovere, li faccio parlare. Ma se la storia non c’è? O se ci sono più storie possibili, molte immagini intrecciate tra loro, indefinite, contraddittorie, fuori dalla logica comune? Il rischio di tradurle in un video è quello della semplificazione, della banalizzazione. E perché poi dovremmo farci suggerire delle visioni da qualcun altro, quando il bello della poesia è che le visioni, i pensieri, riescono a sottrarsi alle solite evidenze, seguono percorsi più nascosti e privati? Forse l’unica soluzione è che il video trovi una via tutta sua, parallela alle immagini ma individuale. Che segua e potenzi l’atmosfera delle parole, rinunciando a illustrarle, e trovando un suo personale stile. Questa è stata la scelta della videomaker Barbara Bernardi, che ha girato un video su una mia poesia, vincendo il primo premio per la sezione di videopoetry al Concorso internazionale di Letteratura Città di Cattolica.

Una curiosità: il video è stato girato in uno dei posti più affascinanti della ex Berlino est, il palazzo della Funkhaus, ora in parte chiuso al pubblico in parte adibito ad atelier di artisti, con i suoi meravigliosi studi di registrazione anni Sessanta.

Ed ecco qui il video, con la voce dell’attore Carlo Loiudice.

Link

Immagine tratta dal film "Oh boy"

Immagine tratta dal film “Oh boy”

 

A Berlino si mangia ad ogni ora

 

A Berlino si mangia ad ogni ora.

A Parigi i bar hanno palpebre pesanti.

C’è chi ha unghie colorate di rosso;

sul tavolo dispone bistecche

come per un solitario

gioco di scacchi

 

Sul tavolo appassiscono le voci;

lui tra poco, a casa,

cucinerà le bistecche

(nessuno saprà mai

come è grande la sua cucina).

 

A Berlino si mangia ad ogni ora.

I döner che girano nella notte,

loro conoscono ogni cosa,

loro sanno tutto. I döner che girano

nella notte e chi si intirizzisce

per due polpette.

 

Se vai a dormire

ti addormenti tranquillo

perché fuori, nel buio, qualcuno sta mangiando

e si guarda le mani e si chiede

se sono ancora intatte e per quanto e poi

chiede un tovagliolo, chiede una forchetta.

 

E quando ti svegli ti svegli

sapendo che fuori gli operai

già in pausa con i cetrioli nei panini

fumano e riflettono sul destino

dei baracchini

che hanno venduto le palpebre

 

e al mattino le mamme soffriranno

di aver perso i loro bambini

si abbracceranno nei caffè piangenti

piangendo abbracciandosi

faranno colazione e poi rideranno

e scapperanno lontano, ma torneranno al bar

per l’ora di pranzo –

 

e guardandosi intorno

giovani dalle giacche troppo larghe

stropicceranno i fazzoletti

e chiederanno

se nel riso c’è il glutammato,

 

mentre senza dirsi nulla le coppie

si divideranno le bacchette e il silenzio

se lo faranno impacchettare

per poi portarselo anche a casa,

che comunque a casa non gli servirà, se non

per un lontano futuro:

 

perché a Berlino si mangia ad ogni ora

e loro sicuramente

usciranno a cena

o anche alle cinque, per uno spuntino;

e forse c’è anche chi mangia

nascosto in cucina,

ma una persona così, qui, non l’ha conosciuta

nessuno.

 

 

Poesia tratta dalla silloge “Lettere all’amministrazione del condominio”, LietoColle, 2014.

Lettere all'amministrazione del condominio

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Zanzare e melone

Penobscot Morning

 

Una volta hai suonato al campanello

di notte con la barba lunga, zanzare e odore di melone.

Ero ignara allora non sapevo

che una barba così lunga non l’avresti avuta

mai più.

 

 

 

(Nicoletta Grillo, Lettere all’amministrazione del condominio, LietoColle, 2014)

Immagine di copertina: Alex Katz, Penobscot Morning

Lario

Senza Titolo

 

Lario

 

Non hai più labbra dure

zigomi alteri, quell’andatura

incastrata tra gli scaffali

Nelle strade serali hai chiuso

l’ultima serranda

 

Ma traluce ancora a tratti

la mobile quiete dell’acqua

la memoria di cerchi bianchi

il novembre senza sponde

 

Indulgente, tu?

No. Solo una debole

muta fratellanza nell’eco dell’asfalto

nell’avvilirsi urbano

dell’inverno, nello stridore

discorde dei giorni

 

oltre l’inconsistenza affaticata

degli adulti, le ansie

splendide dei figli

 

oltre tutti i fatti bruti

il pacato sguardo del legno

il trapestio delle voci

il docile sfuggire del tempo

sui pontili del Lario

 

Immagine di copertina di Ines Pellegrino

A passeggio per le piazze di Roma con la poetessa Patrizia Cavalli

piazza navona

Le camminate senza meta sortiscono alle volte effetti insperati. Soprattutto se si cammina per la „felice bellezza negligente“ di Roma. Evitate le „feroci piazze“, quelle di cui parla una poetessa (il riferimento esplicito è a Campo de’ Fiori) che non invitano più alla sosta ma alla fuga, offrendo uno spettacolo intasato di „tavoli, ombrelli, sediole” e magari, svicolando per altre vie, troverete librerie fornitissime dove acquistare con pochi euro libretti mignon che vi parleranno proprio della città che state visitando…

Sembra un rebus ma sto parlando di un semplice libretto dalla veste grafica essenziale, dalla copertina gialla, dal costo di euro tre, per la collana I sassi dell’editore nottetempo. Tre euro ormai a Roma è il prezzo di un gelato – senza panna, credo. Panna spirituale in abbondanza, e senza ingrassare, ne avrete invece leggendo i versi di Patrizia Cavalli di cui sto parlando: due poemetti raccolti sotto il titolo „La Guardiana“.

Il secondo poemetto, da cui sono tratti i versi che abbiamo citato all’inizio, è dedicato alle piazze di Roma. A quello che erano, ossia un vuoto che apparteneva a tutti e che invitava ad una sosta meditativa e libera, senza apericena o cappuccini: „È naturale che si vada in piazza,/ ci vanno tutti, e certo non c’è piazza / che si attraversi in fretta: quasi una timidezza / rallenta i passi alle fontane, all’acqua / che fa il suo giro e ritorna su se stessa. / La mente sosta insieme al corpo e guarda / lo spazio e l’aria del riposo, ossia / la piazza“. E a quello che sono diventate: uno spazio sequestrato, trasformato in gabbia, da riempire ad ogni costo, non importa come: „chiasso puzze concerti promozioni / i cinquemila culturali eventi / fiere-mercato libri chioschi incensi / corpi seduti o in piedi nella mischia, /perché sia tutto pieno, dura festa“.

Il primo poemetto, quello che dà il titolo alla raccolta, è invece la lieve e arguta (userei qui l’aggettivo „filosofica“, se non temessi di far scappare potenziali lettori) storia di un corteggiamento; anzi, di due: quello per una donna e quello per la poesia.

Ed è un corteggiamento- concerto di chiavi e di porte, di segreti e paradisi celati da portoni serrati, di cui bisogna trovare il punto debole, per poi scoprire che il paradiso è tale solo perché custodito, inaccessibile, e che sparisce non appena la chiave gira, e la porta si apre…

Il lento procedere dello scassinatore che non riesce a far scattare la serratura, il goffo corteggiamento con parole che non sono che le „vuote prove di un avvocato /che voglia impratichirsi del mestiere“ mirate a sciogliere la ritrosia della Guardiana, custode di „delizie talmente ineludibili e fatali / che anche la guardiana ne sarebbe persa“ è soprattutto il canto di una nostalgia, di un „balletto zoppo“ e poeticamente elegantissimo, nell’attesa del „suono che si leva da ogni chiusa / materia, che non aspetta altro / che aprirsi e darsi in dono /ma solo a chi è già pronto per quel suono“.

E verrà da sorridere anche a voi sull’umanissima comune attesa che si aprano portoni per accoglierci in stanze luminose e rivelarci tesori, mentre la verità è che “eppure lo sapevo, lo sapevo / che a quella porta non si apriva alcun mistero / era una porta una qualsiasi porta / e nel cassetto c’era quel che c’era, / e non soltanto io, chiunque lo sapeva”.

“Il mio cuore ogni volta che sente bussare / apre la porta.” Dalla Siria la poetessa Maram al Masri

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Esule dalla Siria e parigina d’adozione ormai dal 1982, la splendida cinquantenne Maram al Masri è definita poetessa della “naivité”, dell’ingenuità, poetessa delle piccole cose, dei dettagli familiari e amorosi, talvolta malinconici, talvolta sorridenti. Come in questi leggerissimi versi:

Follia

Che follia!
Il mio cuore ogni volta che sente bussare
apre la porta.

Ma al Masri e non rinuncia alla denuncia – con parole semplici, con immagini quotidiane e dirette che rispecchiano una condizione femminile  altrettanto quotidiana di  isolamento e sottomissione, di sopraffazioni e di  solitudine. Come è la sua stessa esperienza: il marito dopo la separazione le rapisce il figlio, impedendole di vederlo per ben tredici anni.

Nelle parole riportate da Deborah Marinacci per il blog threemonkeysonline. com la poetessa descrive così la sua giovinezza in Siria, paese dal quale si distacca con decisione:  “Sono una donna libera. Quando ero piccola le mie compagne me lo dicevano sempre. Allora non capivo questa libertà. Per loro era immorale perché nuotavo, ballavo, portavo delle minigonne, salutavo i ragazzi, andavo al cinema. La mia famiglia mi ha mandata a Damasco all’università. Io andavo in Inghilterra, amavo senza nascondermi un ragazzo di un’altra religione. Ho sofferto tanto. Per loro era una specie d’insulto, e per me invece era morale, onesto, non ipocrita, significava stare bene con l’altro, rispettarsi. Essere trasparenti, accordarsi con i propri pensieri.”

Dalla raccolta Anime scalze dell’editore Multimedia proponiamo una poesia che si concentra su una solitudine, tra Eleanore Rigby e L’eleganza del porcospino:

Betty

Padre: Georges
Madre: Emma
Età: 83 anni
Professione: ex istitutrice

Betty
ha una gatta
che si chiama
Katheline.
Katheline,
la gatta di Betty
è odiata da tutti
tranne che da
Betty
che non ama che
Katheline
Betty
non fa niente altro
che stare seduta davanti alla finestra
a carezzare il pelo
della sua gatta cattiva,
Katheline
Katheline
che odia tutti tranne che
Betty.
Ma Betty si ostina
a tenere ogni giorno
il suo diario intimo,
l’unica cosa che la distrae
da Katheline.

Sabato : Katheline non mangia.
Domenica : Katheline ha mangiato due topi.
Lunedì : Katheline miagola molto.
Martedì : Katheline mi guarda con amore.
Mercoledì : Katheline ha perso un po’ di pelo.
Giovedì : Katheline …
Venerdì : Katheline. Katheline. Katheline.
Katheline Katheline
Katheline Katheline Katheline
Katheline Katheline Katheline Katheline

Il respiro della natura nelle poesie di Alex Caselli, con un’introduzione di Fabrizio Bajec

Paul Klee Ad Parnassum 1932

Oggi ospitiamo tre poesie del poeta emiliano Alex Caselli. Nato nel 1983, specializzato in storia moderna, Caselli ha già al suo attivo diverse pubblicazioni. Noi lasciamo come sempre la parola prima alle sue poesie (tratte dalla silloge “Giardino”), e poi alla presentazione dell’opera fatta da Fabrizio Bajec. Voi leggetele nell’ordine che preferite…

Prima di Pasqua

C’è silenzio. Regna nell’orto

l’angoscia del possibile. Tutto,

istante propizio, in questa resa ha inizio.

Ti stringi nella tunica, fa freddo,

umida l’aria ti trafigge, rovi ti segnano

i ginocchi, crepe sulla terra si aprono.

E lì, in pace notturna tra amici

sedotti, ora lasciati a dormire,

nella resa, sospesa al tuo gesto d’aiuto

incautamente evitato, lì

nel vivo, rigoglioso e fresco

deserto, si stendono impassibili, alte

e nell’attesa si fanno presagio –

le braccia della croce. E tu ritorni

al suo incrocio fatale, il Senso.

Risalgono dal monte, in fila, lanterne,

strepitano da ombre in ascesa

ironiche ingiurie. E ancora

ti raccogli, solitario, in preghiera.

Poi discendi – ultima discesa –

e sei tra loro, in fede, già compiuto.

Si arma la mano del compagno

scocca sordo il bacio dell’inizio.

Rimozione

Resta isolata

la frase fatta

snobbata dal discorso;

emerge – isolotto – la parola

uscita liscia, tonda,

dalla bocca.

Rimuove la difesa

lo scacco dell’assalto,

si sposta nel cestino

il simbolo, il rimando.

Della pietanza resta un contorno

uniforme, leggero.

(Lontano, in cavità profonde,

echeggiano sirene

anticorpi, quarantene).

 

Digestione

È famelica nel gorgo

l’attesa che alla luce si spalanca,

cala dall’alto il cibo della vita

il vino dell’alleanza. Guardiani

incrociano lance, percuotono

il corpo, ne fanno poltiglia.

Lo mutano, gli addetti, nel bolo.

Compie il suo giro, occultato

dagli occhi, dai riti,

lontano, in disparte, s’immola.

 

E ora ascoltiamo cosa ne dice Fabrizio Bajec in un intervento scritto per il blog attimpuri che l’autore ci ha gentilmente messo a disposizione:

Se l’uomo ama tanto osservare la natura è perché in essa non trova immediatamente conflitti. La natura è riposante, rigenerante. Posare lo sguardo su un giardino, su un campo, presso un fiume, in aperta campagna, rigenera lo spirito, placa gli umori peggiori. Nella natura non ci sono divisioni o contrapposizioni, ma regna una grande unità. E la vita non sembra potersi interrompere mai.
Allora trattare di questo nei propri versi è come dichiarare un bisogno di pace, di un Eden che si sa difficile da raggiungere. Nelle pagine di
Giardino, i confini tracciati tengono fuori tutto il peggio che l’uomo può vivere. E d’altra parte, ci ricordano l’atavico rapporto con una Madre né benigna, né feroce. La natura è quel che è. E Caselli non ha intenzione di sublimarla in alcun modo, né idealizzarla proponendo un modello di vita alternativo. Non crede più in Rousseau (per citare un suo verso). A lui interessa parlare della vita al suo stato nascente. Così l’uovo di testuggine della prima poesia non conosce ancora la sua fine.
Come possono esaltarci i versi lirici di chi ha fatto la scelta di illustrare paesaggi, piccoli animali, micro-movimenti, in un ecosistema spesso lontano dal nostro, e considerato grossomodo noioso, rispetto al potenziale narrativo o letterale che può scaturire dai centri urbanizzati, dalla velocità del funzionamento delle metropoli, il funzionamento della nostra vita moderna di cui abbiamo sete di notizie?
La scelta di Alex Caselli è, per cominciare, la discrezione, e l’umiltà del suo soggetto, in seconda battuta, accompagnata da un’altrettanto discreta fiducia nel creato. E’ una spiritualità laica che ci fa pensare all’approccio storico del botanista Jean-Marie Pelt, in
Nature et spiritualité; se non fosse che Caselli non ci sprona nemmeno alla battaglia ecologica, per salvare la nostra Terra! E non ha l’ambizione montaliana di un Pierluigi Bacchini. Non ha retorica di fondo. Non dà il messaggio che solitamente ci hanno insegnato ad aspettarci dalla poesia. Sembra invece un antico poeta cinese che si nutre (verbo che torna nella raccolta) di contemplazioni rassicuranti e che studia il suo orto. Viene ancora in mente Wang Wei con sulle spalle la tradizione taoista quando esce in escursione. Ma di nuovo, Caselli non ne è consapevole, a lui interessa più Bertolucci, che sulla stessa regione gettava il suo occhio meravigliato.
Stupisce che un autore non ancora trentenne preferisca occuparsi del paradiso, lasciando il più agevole inferno ad altri.

Ma l’Eden di Caselli non è privo di inquietudini umane, o meglio animali: come le carpe che devono sfuggire alla rete, o il pesce che si vorrebbe veder balzare fuori dall’acqua, per dare uno stimolo al poeta. Il rischio della vita campestre è infatti la stasi, la possibile noia, una certa malinconia che Caselli tiene a bada con il proprio stupore. Non abbandonare il liquido amniotico (l’acqua è la principale figura ricorrente) sembra il suo progetto, per ora. Egli ci ricorda perennemente l’inizio e che la poesia è un’arte senza tempo. E’ quasi ironico per un primo libro. Qui sta ancora la maturità di Caselli. Per permettersi ciò, deve trovare lo stile più limpido possibile, una metrica leggera, senza virtuosismi, il terreno meno tortuoso. E ci riesce, dando prova di grande controllo e di una pulizia che servono bene la sua lirica meditativa. Il meglio sta tutto nei paesaggi, negli accostamenti di adulti e bambini, dove gli adulti finiscono per tornare fanciulli. E sembra davvero il lieto fine augurato. C’è qualcosa di ellenico e pastorale in questa voce che sconquassa le coordinate del lettore contemporaneo. Paradossalmente, egli dovrà tornare a scuola, per gustarsi meglio una semplicità pascoliana, dovrà aver voglia di riprendere i classici e notare che l’autore non ha alcuna fretta di mostrare ciò che ha imparato, quello che sa del mondo. Caselli gioisce, sempre  lateralmente rispetto a un suo quadro, mai in mezzo, ma gioisce, sì, di quel famoso inizio. Pochi versi memorabili forse, piuttosto atmosfere, pitture vive. Eccone un esempio che invita alla scoperta del libro:

Da un mondo all’altro l’intrusione
in maschera, di bimbo o d’uomo,
sulla soglia apparirebbe
come un bianco essere supremo
a una tribù d’indigeni.”

Alex Caselli, Giardino, Con-fine edizioni, Monghidoro (Bo), 2010, pp. 53, € 9

(See more at: http://www.attimpuri.it/2010/05/recensioni/alex-caselligiardino-di-fabrizio-bajec/#sthash.ado5OV84.dpuf)

“Se non riesci a dormire vuol dire che un poeta ti sogna sveglia”: il poeta turco Gökçenur Ç

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La morte sogna di sommare previdenza sociale, previdenza aggiuntiva e andarsene in pensione,

La morte, lucciola bionda, impara qualcosa da chiunque tocchi,

La morte non gradisce l’idea di trasferirsi in campagna,

La morte dice a Cüneyt ho visto tuo padre sta bene e ti bacia..

 

Poeta, organizzatore di scambi internazionali di poesia, traduttore, e anche ingegnere: il quarantatreenne Gökçenur Ç (abbreviazione che si pronuncia Ce) è uno dei lirici turchi più attivi e originali del panorama contemporanea. Sua è per esempio la poesia Maschera antigas, occhialini, antiacido e latte (l’equipaggiamento necessario per difendersi dai gas lacrimogeni della polizia), scrittaa caldo“ durante le proteste di Gezi park, pubblicata in tedesco dall’editore binooki.

E in italiano? Trovare poesia turca contemporanea ben tradotta – e soprattutto tradotta direttamente dall’originale (molto diffusa infatti è la prassi di tradurre da traduzioni) non è cosa facile. Un ottimo posto dove informarsi e trovare ottime versioni in italiano di molti lirici turchi contemporanei  è il blog defterpoesiaturca (www.defterposiaturca.wordpress.com) di Nicola Verderame, dottorando in cultura ottomana a Berlino ed esperto di lingua e letteratura turca.

È lui l’autore delle traduzioni di Ç, già presenti sul suo blog, che ci ha gentilmente concesso di ripubblicare qui. Godetevele.

 

Maschera antigas, occhialini, antiacido e latte

 

Quella mattina ti sei svegliato presto

E prima di dare uno sguardo ai giornali

Prima ancora di toccare il cellulare

Sei uscito in strada con una gioia insolita.

 

Pane caldo, burro, omelette con salame e the

Amore in un letto già disfatto

Prima della siesta.

 

Tutto era puro

Tutto era tranquillo

Tutto era perfetto

E intatto nella tua mente

Finchè quel gabbiano

Si posa sull’inferriata del balcone

Ti punta gli occhi addosso ed emette un hǣrrrǩĥ!

 

Poi hai scritto un sacco di poesie,

Pubblicato tre libri, ti sei rilassato.

Hai quattordici versi in testa, ancora non scritti.

Ma ancora non sai dove usare questa parola:

 

Hǣrrrǩĥ! dovrei dirlo più spesso che ti amo, non importa che tu lo senta o no

hǣrrrǩĥ! ho cancellato gli sms venuti dalla nebbia senza leggerli, fallo anche tu

hǣrrrǩĥ! se non riesci a dormire vuol dire che un poeta ti sogna sveglia

hǣrrrǩĥ! l’estate è arrivata, l’estate dello sciacallo Celebi, si deve brindare

hǣrrrǩĥ! ci asfissiano come insetti a Gezi Park

hǣrrrǩĥ! il cielo prevede la pioggia o la intuisce, ma questo all’estate non va chiesto

hǣrrrǩĥ! eri una telefonata di mattina presto a cui non ho risposto.

hǣrrrǩĥ! hai lasciato sul mio tavolo una matita rosicchiata e senza punta, ma non oso temperarla

hǣrrrǩĥ! mi hai gridato, la pioggia si stringeva a quel suono, le gocce non cadevano più ma mi volavano incontro

hǣrrrǩĥ! quella notte abbiamo dormito in posti diversi, ma sognando di imparare l’ebraico insieme

hǣrrrǩĥ! le cose pensate non sono poesia – informazione confermata, questo il messaggio da un numero sconosciuto

hǣrrrǩĥ! la solitudine mi brucia dentro, colpisce tutti, prendine nota e non dimenticarlo

hǣrrrǩĥ! i tuoi grandi denti, le lentiggini, gli occhi brillanti, gli orecchi concavi, i capelli setosi

hǣrrrǩĥ! sposami, ho tutto: maschera antigas, occhialini, antiacido e latte

 
 

 Sei lontana dal tuo paese, e io sono là

 

Sei lontana dal tuo paese, e io sono là

ogni giorno che passa la mia poesia

somiglia a lettere smarrite dalle poste:

 

Ti sei addormentata sul lungo sofà color banana,

lo chignon disfatto, gli occhiali sul punto di scivolarti dalle dita,

i resti di quattro o cinque mele nel piatto,

il pettine usato come segnalibro,

una copertina blu di Prussia sulle ginocchia,

forse sogni una scena teatrale con vecchie voci:

 

Sei in casa nostra, tua madre non è ancora impazzita,

mio fratello non è ancora stato coscritto

Zeki Müren canta alla radio

Adesso sei lontano”

tra un minuto interrompendo la canzone annunceranno

che le forze armate hanno preso il controllo

per la sicurezza e la salvezza nazionale,

fra un minuto dirai “devo andare via”

non posso venire, perché il turco…”

 

Avrai visto quest’opera mille volte,

ma quando sarai sul punto di svegliarti in un bagno di sudore

noterai un telegramma stropicciato sul grammofono:

 

../non svegliarti../:vento/ stop

cadere foglia secca../’sul tuo seno

come mie notizie../ stop

 

Sei lontana dal tuo paese immerso nel caos

io sono vivo, per il momento, e

innamorato, dubbioso e immune alle separazioni

 

 

 

Il link del blog defterpoesiaturca dove potete trovarle è questo: http://defterpoesiaturca.wordpress.com/tag/gokcenur-c/

Dall’Ucraina con furore: Serhij Zhadan

zhadan

In Italia lo si conosce per il romanzo Depeche Mode, pubblicato qualche anno fa da Castelvecchi. E per il pestaggio di cui lui, ucraino, è stato oggetto a Kiev,  durante una manifestazione da parte di un gruppo di filorussi.

Definito unanimamente l’”enfant prodige della letteratura russa” (anche se lui scrive rigorosamente in ucraino), Sergej Zhadan, classe 1974, ha all’attivo otto raccolte di poesie (è stato soprannominato  il “Rimbaud dell’Ucraina”) e una decina tra romanzi e racconti, tradotti in diverse lingue. In Germania, per esempio, è autore acclamato e ricercatissimo, invitato a molti festival e fiere: piacciono il suo stile scanzonatoe anarchico, il senso dell’assurdo, la sua poesia “punk” dalla “malinconia postproletaria”, come lo descrive il suo editore tedesco Suhrkamp.

Qui proponiamo una sua poesia in inglese, tanto per averne un assaggio:

 

LUKOIL

When Easter arrives and the sky becomes kinder
but everyone becomes more intense, saying, Easter, Resurrection Day
then the dead start to turn in the ground,
breaking up the cold clay with their elbows.
I’ve had to bury friends,
I know what it’s like to bury your friends in the dirt,
like a dog buries a bone,
and wait till the sky
becomes kinder.

There are social groups
for whom such rituals are very important,
I mean, first of all, mid-sized businesses.
Everyone has seen
the sorrow that envelopes these regional
representatives of Russian gas companies
when they descend on the boundless
cemetery fields, to bury in the ground
one more brother shot through the lungs;

everyone has heard the loud beat of their hearts
when they stand near the coffin
and wipe their stingy tears and runny noses against their
dolce & gabbana
slurping hennessy
from disposable
glasses.

“So, Kolya,” they say, “here’s to you and the hereafter.
In the great field of offshore business
we fall into the cold pools of oblivion,
like wild geese in the autumn with buckshot in our livers.”

“So,” they answer, “when we
send off our brother
on his long journey
into the radiant Valhalla of Lukoil
who will accompany him
through the dark caverns of purgatory?”

“Bitches,” they all say, “bitches
he’ll need bitches,
good bitches
expensive ones, without bad habits,
they will warm him in the winter
they will chill his blood in the spring,
on his left will lie a platinum blond,
on his right will lie a platinum blond,
and he won’t even notice he is dead.

Oh, death is a territory where
our credit won’t reach.
Death is the territory of oil,
let it cleanse his sins.
We’ll place his weapons at his feet, and gold,
and furs and finely ground pepper.
In his left hand we will place his newest nokia
and in his right an indulgence from Jerusalem.
But the main thing are the bitches,
two bitches, the main thing are two platinum bitches.”
“Yes, that’s the main thing,” everyone agrees.
“The main thing are the bitches,” they agree.
“The main-main thing,” adds Kolya from the casket.

We’re all sentimental at Easter time.
We stand and wait for the dead
to rise and come to us from the hereafter.
You become more interested in death
when you bury friends.

On the third day as they flank
the doors of the morgue, on the morning of the third day
he conquers death through death, after all, and walks out
from the crematorium, he sees
that they have all fallen asleep exhausted
after a three-day drinking spree
sprawled out on the grass,
in vomit-covered
dolce & gabbana.

Then quietly
so as not to wake them up
he takes from one of them
the charger for a nokia
and returns
to hell
to his
blonds.

La traduzione è presa dal sito http://www.poetryinternetionalweb.com