“Genova mia città intera. / Geranio. Polveriera.” cantava Giorgio Caproni in Litania, la sua dichiarazione d’amore alla città.
E dalla Genova con quel mare scuro che si muove anche di notte, ai vicoli dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi (Paolo Conte e De Andrè), alla città dove sentirsi nello stesso tempo sperduti e a casa, bambini e stranieri, come scrive Paul Valéry, Genova è sempre stata città poetica per eccellenza.
Io a Genova mi sono persa e sperduta e ritrovata parecchie volte l’anno scorso, seguendo la parte finale del’annuale festival di poesia tra caruggi, scalinate e piazzette ombrose di magnolie,con struggenti scorci sui tetti grigi e il mare. Ho ascoltato voci dall’Italia, dalla Francia, dal Marocco, dai Balcani, dalla Grecia, e approfittato delle pause per un bella frittura a Sottoripa o una farinata in via Del Campo (tanto per unire il dilettevole al dilettevole).
Quest’anno il Festival “Parole spalancate”, organizzato dal poeta Claudio Pozzani, arriva alla ventesima edizione e propone un programma ricchissimo: oggi la poesia del Mediterraneo di Voix Vives, e poi, da domani e per tutta la settimana appuntamenti con poeti da tutto il mondo (il nome più di richiamo è Michel Houellebecq, ma secondo me il bello di un festival è ascoltare non solo i personaggi già conosciuti, ma lasciarsi andare alla scoperta delle novità), spettacoli (per esempio Pippo del Bono), una ventiquattr’ore di letture di poesia il 13 giugno, percorsi attraverso la città dedicati per esempio a Paul Valéry o a Dino Campana, e per noi golosi gli “aperitivi poetici”. Qui trovate il programma dettagliato.
http://www.festivalpoesia.org/blog/parolespalancate-programma
A me rimangono i versi di Caproni: “Genova dove non vivo. Mio nome, sostantivo”. Voi, se ci abitate più vicini, andateci.
Vi consiglio anche una guida turistica un po’ speciale, per scoprire la città da una prospettiva diversa rispetto al solito acquario:“Mi sono perso a Genova” di Maurizio Maggiani.
O rileggetevi un’altra poesia di Giorgio Caproni, attendendo di prendere l’ascensore che sale al belvedere di Castelletto:
L’Ascensore
Quando andrò in paradiso
non voglio che una campana
lunga sappia di tegola
all’alba – d’acqua piovana.
Quando mi sarò deciso
d’andarci, in paradiso
ci andrò con l’ascensore
di Castelletto, nelle ore notturne,
rubando un poco
di tempo al mio riposo.
Ci andrò rubando (forse
di bocca) dei pezzettini
di pane ai miei due bambini.
Ma là sentirò alitare
la luce nera del mare
fra le mie ciglia, e… forse
(forse) sul belvedere
dove si sta in vestaglia,
chissà che fra la ragazzaglia
aizzata (fra le leggiadre
giovani in libera uscita
con cipria e odor di vita
viva) non riconosca
sotto un fanale mia madre.
Con lei mi metterò a guardare
le candide luci sul mare.
Staremo alla ringhiera
di ferro – saremo soli
e fidanzati, come
mai in tanti anni siam stati.
E quando le si farà a puntini,
al brivido della ringhiera,
la pelle lungo le braccia,
allora con la sua diaccia
spalla se n’andrà lontana:
la voce le si farà di cera
nel buio che la assottiglia,
dicendo “Giorgio, oh mio Giorgio
caro: tu hai una famiglia.”
E io dovrò ridiscendere,
forse tornare a Roma.
Dovrò tornare a attendere
(forse) che una paloma
bianca da una canzone per radio,
sulla mia stanca
spalla si posi. E alfine
(alfine) dovrò riporre
la penna, chiuder la càntera:
“È festa”, dire a Rina
e al maschio, e alla mia bambina.
E il cuore lo avrò di cenere
udendo quella campana,
udendo sapor di tegole,
l’inverno dell’acqua piovana.
Ma no! se mi sarò deciso
un giorno, pel paradiso
io prenderò l’ascensore
di Castelletto, nelle ore
notturne, rubando un poco
di tempo al mio riposo.
Ruberò anche una rosa
che poi, dolce mia sposa,
ti muterò in veleno
lasciandoti a pianterreno
mite per dirmi: “Ciao,
scrivimi qualche volta,”
mentre chiusa la porta
e allentatosi il freno
un brivido il vetro ha scosso.
E allora sarò commosso
fino a rompermi il cuore:
io sentirò crollare
sui tegoli le mie più amare
lacrime, e dirò “Chi suona,
chi suona questa campana
d’acqua che lava altr’acqua
piovana e non mi perdona?”
E mentre, stando a terreno,
mite tu dirai: “Ciao, scrivi,”
ancora scuotendo il freno
un poco i vetri, tra i vivi
viva col tuo fazzoletto
timida a sospirare
io ti vedrò restare
sola sopra la terra:
proprio come il giorno stesso
che ti lasciai per la guerra.