Mi hanno raccontato di un tempo legendario; tempo in cui nelle città si sentiva solo il rumore del vento caldo e delle cartacce che rotolavano per le strade; dove i pochi bambini rimasti chiudevano gli occhi e si mettevano ad aspettare in piedi nel mezzo delle strisce pedonali, col cuore in gola, per dimostrare il proprio coraggio, ma non succedeva mai niente, solo il silenzio aumentava nelle orecchie fino a scoppiare; un tempo dove i vecchi si mettevano per strada, all’alba, a cercare un lattaio aperto, prima che il caldo diventasse insostenibile; dove al mare invece si affollavano corpi e corpi e ogni piazzola era occupata da tende e nessuno era raggiungibile dal proprio capo, dall’ufficio, o dai clienti, perché nessuno aveva il cellulare e tantomeno un computer; e tutti erano occupati a fare parole crociate e ad abbronzarsi, e poi si scendeva tutti oliati e fritti fino al mare; e i bambini si annoiavano e torturavano le cicale e si allenavano a camminare a piedi nudi sui ciotoli bollenti della spiaggia; e i genitori litigavano con i vicini di tenda e poi la sera si friggeva, tutti insieme, sotto lampioncini di carta; e questo per un lungo, interminabile, incredibile mese che era come fare un viaggio su un altro pianeta. Quindi, in onore di questo tempo leggendario e favoloso, questo blog sarà
Archivio mensile:luglio 2014
“Non fuggirò a Nord, Dio”. La poesia del palestinese Najwan Darwish
Lui si chiama Najwan Darwish ed è una delle voci più interessanti della poesia araba contemporanea. È palestinese; le sue poesie parlano di oppressori ed oppressi, di una quoditianità fatta di bombardamenti, di una normalità stranita e surreale, amarissima. E lo fa con un tocco inconfondibile, con un’ironia lucida e spiazzante. Quando lo incontriamo al festival di poesia di Tunisi dice di non voler scrivere poesia dichiaratamente politica, ma che lo scrittore è, come tutti, preso nel mondo, e che non può fare a meno di parlarne. Ci descrive le difficoltà che incontra ogni volta che esce da Gerusalemme per la sua attività di poeta e giornalista, degli interminabili interrogatori in aeroporto. Racconta e ride: è l’ironia la dignità più forte.
Nato nel 1978 da genitori palestinesi esiliati a Gerusalemme, Darwish ha esordito nel 2000. Le sue poesie sono tradotte in 19 lingue.
Le traduzioni che presento qui sono dal francese e dall’inglese, dalle raccolte Nothing more to lose (NYRB 2014), e Je me lèverai un jour (Al-Feel, 2012).Spero che presto qualche arabista ci pensi lui…
Sonno a Gaza
Fado, dormirò come si dorme
quando gli aerei bombardano
e l’aria si lacera
come carne viva
Sognerò dunque di tradimenti
come si sogna dormendo
quando gli aerei bombardano
A mezzogiorno mi sveglierò
per interrogare la radio
come fanno tutti gli altri:
C’è una tregua? Quanti morti?
Ma la mia tragedia, Fado,
è che ci sono due tipi di persone:
Quelle che buttano le loro sofferenze
e i loro peccati in mezzo alle strade
per potersi addormentare
E quelli che fondono le sofferenze
e i peccati in forma di croce
e la portano in processione
per le strade di Babilonia, di Gaza e di Beirut
gridando: Ancora!
Ancora!
Due anni fa camminavo
per le strade di Dahieh
alla periferia sud di Beirut
e trascinavo una croce grossa
come le macerie di un palazzo
Ma ora, chi toglierà la croce
dalla schiena di un uomo sfinito a Gerusalemme?
La terra: tre chiodi
E la misericordia: un manganello.
Colpisci, Dio,
colpisci con gli aerei
Ancora!
Il bus degli incubi
Li ho visti infilare le mie zie
in sacchi di plastica nera
dove il loro sangue caldo
si accumulava in pozze
(Ma io non ho zie)
Ho saputo che hanno ucciso Natasha,
mia figlia di tre anni
(Ma io non ho figlie)
Mi è stato detto che hanno violentato mia moglie
l’hanno trascinata per le scale e poi lasciata per la strada
(Ma io non sono sposato)
Non c’è dubbio, gli occhiali che i loro stivali
hanno fatto a pezzi sono proprio i miei
(Ma io non porto occhiali)
…
Dormivo a casa dei miei genitori
e sognavo di andare da lei. Al risveglio
ho visto i miei fratelli
impiccati al soffitto
della chiesa del Santo Sepolcro
Mosso a pietà, Dio diceva: „Questo
è il mio dolore“.
Io raccoglievo l’orgoglio degli impiccati e dicevo:
„No, è il nostro!“
…
Il dolore illumina e mi diventa più caro
dei miei stessi incubi.
….
Non fuggirò a Nord
Dio
Non mettermi tra quelli che cercano
un rifugio
-continueremo più tardi a fare questi conti
Adesso è ora di andare a dormire
non voglio essere in ritardo per il bus
degli incubi che va a Sabra e Shatila…
Il paradiso
Ci risvegliammo un giorno in paradiso
e gli angeli ci colsero di sorpresa
brandendo contro di noi strofinacci
e manici di scopa
– Il vostro alito odora di alcol
le vostre tasche sono tutte piene
di poemi e di eresie…
-Calmatevi, servitori di Dio, gli abbiamo detto:
desideravamo solo passare una mattina
ad Haifa. I nostri sogni ci hanno portato qui
per errore.
Chi si ricorda degli Armeni?
Io mi ricordo di loro:
con loro ogni notte
salgo sul bus degli incubi
con loro stamattina
bevo il mio caffè.
Ma voi, assassini –
Chi si ricorda di voi?
Maria
Ultimamente mia madre è ossessionata
dai libri su Gesù. Vicino al suo letto pile
di volumi, spesso presi in prestito
dalla mia biblioteca: romanzi, manuali, confessioni,
autori in polemica tra loro. Se mi capita di passare
vicino alla sua stanza, subito mi chiama perché
io intervenga a dirimere le loro questioni.
(Poco tempo fa, ho soccorso uno storico di nome Kamal Salibi
a cui una pietra cattolica aveva squarciato la fronte)
Prende le sue ricerche su Gesù molto sul serio,
questa donna che ho sempre deluso – non sono caduto
martire ai tempi della prima Intifada, né nella seconda,
e nemmeno nella terza.
Detto tra noi, non cadrò martire in nessuna
delle prossime intifada.
E non morirò ucciso da una cicogna imbottita di esplosivo.
…
Lei legge e la sua immaginazione ortodossa mi
crocifigge ad ogni pagina
E io non faccio nient’altro che rifornirla
di libri e di chiodi!
Come questi alberi
Gli alberi oscillano
ben attenti a non cadere
Perché se gli alberi cadono,
la terra qui non li accoglie:
né lei né nessun altro.
E visto che gli alberi
non riescono più a sopportare il marcire delle radici
visto che hanno scelto di diventare alti nel vento
devono pagarne il prezzo e cadere senza fine.
E per questo, ti prego, quando cammini in bilico
sui marciapiedi, stai attento
perché anche tu cadrai senza fine
Non c’è niente di male ad immaginare alberi
che si dondolano assieme a te
e un vento che ti prende al volo mentre cadi
Tu che hai vissuto come questi alberi,
senza terra
né radici.
L’immagine è tratta dal film “Waltz with Bashir” di Ari Folman.
“And remember: smile not terrorist”. Rafeef Ziadah
Ci sono numeri che contano (per esempio i goal fatti in una partita) e numeri che non contano (per esempio i “danni collaterali” uccisi a Gaza). Poi c’è la poesia.
Today, my body was a TV’d massacre.
Today, my body was a TV’d massacre that had to fit into sound-bites and word limits.
Today, my body was a TV’d massacre that had to fit into sound-bites and word limits filled enough with statistics to counter measured response.
And I perfected my English and I learned my UN resolutions.
But still, he asked me, Ms. Ziadah, don’t you think that everything would be resolved if you would just stop teaching so much hatred to your children?
I look inside of me for strength to be patient but patience is not at the tip of my tongue as the bombs drop over Gaza.
Patience has just escaped me.
Pause. Smile.
We teach life, sir.
Rafeef, remember to smile.
We teach life, sir.
We Palestinians teach life after they have occupied the last sky.
We teach life after they have built their settlements and apartheid walls, after the last skies.
We teach life, sir.
But today, my body was a TV’d massacre made to fit into sound-bites and word limits.
And just give us a story, a human story.
You see, this is not political.
We just want to tell people about you and your people so give us a human story.
Don’t mention that word “apartheid” and “occupation”.
This is not political.
You have to help me as a journalist to help you tell your story which is not a political story.
Today, my body was a TV’d massacre.
How about you give us a story of a woman in Gaza who needs medication?
How about you?
Do you have enough bone-broken limbs to cover the sun?
Hand me over your dead and give me the list of their names in one thousand two hundred word limits.
Today, my body was a TV’d massacre that had to fit into sound-bites and word limits and move those that are desensitized to terrorist blood.
But they felt sorry.
They felt sorry for the cattle over Gaza.
So, I give them UN resolutions and statistics and we condemn and we deplore and we reject.
And these are not two equal sides: occupier and occupied.
And a hundred dead, two hundred dead, and a thousand dead.
And between that, war crime and massacre, I vent out words and smile “not exotic”, “not terrorist”.
And I recount, I recount a hundred dead, a thousand dead.
Is anyone out there?
Will anyone listen?
I wish I could wail over their bodies.
I wish I could just run barefoot in every refugee camp and hold every child, cover their ears so they wouldn’t have to hear the sound of bombing for the rest of their life the way I do.
Today, my body was a TV’d massacre
And let me just tell you, there’s nothing your UN resolutions have ever done about this.
And no sound-bite, no sound-bite I come up with, no matter how good my English gets, no sound-bite, no sound-bite, no sound-bite, no sound-bite will bring them back to life.
No sound-bite will fix this.
We teach life, sir.
We teach life, sir.
We Palestinians wake up every morning to teach the rest of the world life, sir
(Trascrizione dal blog: blissonature.wordpress.com)
Piazze sommerse dal mare, rioni bolognesi, fiumi: i microcosmi dell’iraniano Nader Ghazvinizadeh, ospite di oggi. Con un’immagine di Alessandro Cemolin.
“I suoi personaggi prediletti sono i migranti, gente che soffre lo spostamento e coglie le differenze. Persone ancora sensibili al passaggio, al cambiamento. Non sono i viaggiatori con auricolare, in giacca e cravatta, che guardano annoiati l’orizzonte, dietro a una vetrata di aeroporto.”
Così Fabrizio Bajec in una recensione della silloge di Nader Ghazvinizadeh, Metropoli (la trovate in http://www.attimpuri.it); e dal passaggio si arriva alle città e ai microcosmi che le abitano. Quelli di Ghazvinizadeh sono luoghi vissuti dal basso, da un incedere lento e preciso che ne percorre instancabilmente strade e paesaggi, ne condensa le atmosfere e coglie il desiderio di radici e lo spaesamento dell’umanità che li popolano.
Seguiamo quindi subito Nader Ghazvinizadeh nelle sue geografie e poi facciamogli qualche domanda: sui luoghi, sulla letteratura, sulla poesia.
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Nel crocevia dei prati
i piani intersecanti agli orizzonti
Galeazza, Camposanto, Palata, Bevilacqua
lontano l’ultimo quartiere
le mie decumane gelate come spiagge
che hanno la piazza in mare
come relitto in secca la cattedrale
vive di buio la croce greca, opale
d’architravi l’avanguardia alle scale
uomini argentati le periferie: armature.
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Andiamo in giro per le strade
e sappiamo che là, in fondo alle case
stan facendo qualcosa
è un paese sovrappensiero
piove piano sul Po
piove che non si vede, che sembra niente
essendo il fiume come lo stradone che non abbiamo
non ci pensiamo e facciamo i nostri conti
con le carte da tressette e la luce intermittente
delle lampadine, che sono lì dall’ultima alluvione
essendo un fiume come una bestia che respira
di volte ansima, di volte sospira
tra il silenzio e quel che non diciamo
c’è un fiume del quale non parliamo
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fecondo Gennaio il mese convesso
cieli presagi di frumento
metabolismo muto nei campi in amplesso
abdica il corvo muto e si fa nevaio
il sonno si prende e si perde a metà notte
città/voliera città/granaio
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Nei ristoranti al mare
col brutto tempo, la domenica di Pasqua
tra una portata e l’altra si scendeva sulla spiaggia
le scarpe in mano, i piedi sulla sabbia
facendo le prove per la nuova estate
nei ricordi il vento ha cancellato lo sfondo
finiva l’età dell’innocenza
lo sguardo volto ai convitati
coi tacchi alti le ragazze finivano l’adolescenza
le chiamavano indietro per la nuova portata
una cresima, un fidanzamento
confidando i progetti per l’estate
come una febbre da lì a venire
nel ristorante al mare
con l’acqua minerale, il vino bianco
i ricordi hanno cancellato i camerieri
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Nader, qual è la tua città “poetica” per eccellenza?
Non una città, non un quartiere, ma un rione: Il Gandusio, Bologna: per me è un aldilà, l’eterno ritorno, dove il giudizio sul mondo è sospeso, nel senso che tutto è già accaduto e non se ne parla. È il luogo che mi torna subliminale alla mente quando sono altrove e segna il momento nel quale è giusto tornare a Bologna.
E quale libro vorresti consigliarci?
Cargo, di Simenon. È un libro limitato nel senso di compiuto, lo si chiude ed è finito, ricomincia ogni volta che lo si riapre e lo si può riaprire in qualsiasi punto ed è da lì che riprende l’entropia. È un libro di avventura, l’avventura è la letteratura, lascia non detto tutto ciò che dice ed, appunto, ha già detto, Melville.
Quali sono i primi versi di una poesia o di una canzone che ti vengono in mente?
La bellezza è cattiva, la mia mano non ci arriva, scritta da Fossati e cantata da Fiorella Mannoia. Fossati è un cantautore mediocre, la Mannoia corriva, ma quando si parla di versi, spesso la fiammata non arriva dai più alti. E’ un impasto di sale e grano per grano viene un verso semplice, un pensiero ad alta voce, che mistifica e non mente.
Un’ultima domanda. Perché poesia?
La maieutica occidentale si risolve in questo, la poesia è autodidattica, ma non insegna a scrivere.
Nader Ghazvinizadeh (1977), iraniano, vive a Bologna. Lavora come professore in un collegio svizzero, è giornalista radiofonico, ha collaborato a diversi quotidiani scrivendo di criminologia e urbanistica ed allena una squadra di calcio. Sua le sceneggiature dei film “Drobgnac“ e “Apocalisse in Via Orfeo“. Suoi testi si possono trovare in Dieci poeti italiani (Pendragon, 202), Poesia. Narrativa (La Meridiana, 2003), Annuario di poesia 2004 (Castelvecchi, 2004) e Ai confini del verso. Poesia della migrazione in italiano (Le Lettere, 2006). Ha pubblicato la raccolta poetica Arte di fare il bagno (Postfazione di Roberto Roversi, Giraldi 2004) e Metropoli (cfr – poiein, 2011); ultimamente ha completato i racconti Cosmonauti e Un prete a Ripoli
Alessandro Cemolin (Treviso 1974), designer e artista che vive e lavora a Berlino, è l’autore di Strutture, l’immagine di copertina (penna, matita e caffé su carta)